S’accabbadora

La “accabadora“, in italiano “colei che finisce”, è una figura molto discussa nell’ambito delle tradizioni popolari.

Secondo alcuni antropologi e studiosi di tradizioni popolari, l’accabadora era una donna che, nei piccoli centri di alcune zone della Sardegna (in particolare in Marghine, in Planargia e in Gallura), veniva chiamata dai familiari dei malati terminali per mettere fine alle loro sofferenze.

Sempre secondo gli assertori dell’esistenza dell’accabadora, gli ultimi episodi di questa particolare forma di eutanasia risalirebbero agli anni Cinquanta del secolo scorso.

Secondo la tradizione, l’accabadora arrivava nottetempo nella casa del malato, faceva uscire i familiari, che non potevano assistere al suo rituale, e, tolte o coperte le immagini sacre presenti nella stanza del sofferente, procedeva alla sua uccisione.

Le modalità più probabili, secondo gli studiosi, erano il soffocamento con un cuscino o l’uccisione mediante un colpo di “mazzolu”, un bastone in legno di olivastro, dato in fronte.

L’attività dell’accabadora era pienamente accettata dalla società del tempo; era anzi vista come un atto di pietà verso il malato, destinato a lunghe e atroci sofferenze.

Anche le autorità e la Chiesa tolleravano questo fenomeno, seppure in modo tacito, riconoscendone implicitamente l’utilità sociale.

Negli ultimi anni la figura dell’accabadora è stata riportata alla ribalta dal romanzo della scrittrice sarda Michela Murgia “Accabadora” (2009). Con quest’opera è stato riaperto il dibattito sull’esistenza reale di questa figura e, naturalmente, sul delicato tema dell’eutanasia.